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La civiltà architettonica in Italia 1900-1944
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La civiltà architettonica in Italia 1900-1944

Arte e architettura
Cesare de Seta


Price: €15,00 (including 22 % tax)




formato: pdf
collana:
anno pubblicazione:
dimensioni cartaceo:
pagine:
immagini:
ISBN:
architettura/teoria
2019
16,8x24
440
434 b/n
978-88-8497-715-1
Gli esordi nella modernità sono segnati dall’inizio del secolo con la presenza significativa del Liberty in tutta l’Italia. Il Futurismo fu l’atto di rottura che portò il paese a dialogare con le avanguardie storiche. Con la fine della Prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo compare sulla scena il movimento di Novecento con personalità di rilievo e contestualmente la comparsa dei giovani razionalisti del Gruppo 7. Figure di spicco come Terragni, Figini e Pollini, i BBPR, Libera e altri convissero con il fascismo, ma dopo la Stazione di Firenze e la città di Sabaudia il regime scelse senza esitazioni una linea regressiva e monumentalista che si chiude con l’E42. L’autore segue le vicende storiche di questi anni non trascurando i rapporti con le arti figurative e la presenza della critica architettonica: con “Quadrante”, “Casabella” sul fronte modernista, e le riviste gestite da Piacenti su quello dell’arte di Stato. Una vicenda ricca e complessa, con molte contraddizioni, ma che sono parte essenziale della civiltà architettonica del nostro Paese.

Recensioni

Pasquale Belfiore

Il Novecento è stato di certo il «secolo breve» ma per le idee ed i fatti straordinari allora accaduti, alimenta una storiografia di lunga durata. Si attinge ancora, e bene, al Novecento quando, dall'arte alla letteratura alla politica, il discorso culturale ha necessità di lievitare e perciò dobbiamo prescindere dai balbettii degli ultimi decenni. Scolastici, nel migliore dei casi. Così anche per l'architettura. Quella italiana poi, ha necessità di ripensare criticamente il Novecento perché appare come un Giano bifronte, con un volto di ambigua modernità nel periodo fascista e all'opposto un altro di esornativa modernità dal secondo dopoguerra. Saldo comunque positivo, rispetto ad un presente segnato dall'indigenza di idee e di fatti rimarchevoli e nel quale disponiamo del solo Renzo Piano per rappresentare l'architettura italiana in sede internazionale.

Un contributo di rilevante interesse per il ripensamento critico del Novecento viene da Cesare de Seta che già nel 2017 ci aveva riproposto una sintesi senza reticenze (frequenti quando lo storico giudica fatti e persone del suo tempo) dal secondo dopoguerra ad oggi per Longanesi. Ora ritorna al «suo» primo Novecento con un corposo saggio bene editato dalla Clean edizioni dal titolo La civiltà architettonica in Italia 1900-1944, arte e architettura.

È un tema che gli appartiene fin dal 1972 quando, più che un sasso, gettò un macigno nello stagno della storiografia sulla "cultura architettonica in Italia tra le due guerre" fino ad allora segnata dal pregiudizio politico-ideologico. Sfidando il cipiglio inquisitore di autorevoli storici di esplicita milizia antifascista come Zevi e Argan, de Seta invitava a distinguere tra architettura fascista, sulla quale il giudizio diventava, se possibile, ancora più severo e architettura del fascismo che in pochi ma qualificati casi mostrava valori antitetici alla predicazione del regime. Per intenderci, la Casa del Fascio, anche con quel nome e quella funzione, restava un capolavoro assoluto. Il suo autore, Giuseppe Terragni, come Pagano, come Michelucci per la Stazione di Firenze, disegnavano in camicia nera, si dichiaravano fascisti, eppure progettavano architetture di livello europeo. Una puntualizzazione non ovvia per chi ha memoria della stagione delle scomuniche generalizzate.

Il macigno nello stagno tuttavia, oltre ai meriti descritti, ha prodotto un'onda anomala della quale de Seta non è responsabile ma parte lesa per l'uso strumentale degli esiti della sua ricerca. Si tratta di quel "clima apologetico" che ormai da più decenni s'è creato intorno all'arte e all'architettura fascista che non ha neppure la dignità del revisionismo storico ma appare piuttosto una sommaria rivalutazione del Ventennio architettonico fatta senza una plausibile ragione. Da qui, la necessità d'un supplemento di riflessione per una seconda messa a punto del problema affidata al citato saggio per la Clean. Non vi sono modifiche interpretative, aggiustamenti di tiro, giudizi inediti, a conferma che l'originario impianto critico era ben fondato, per quasi mezzo secolo ha tenuto banco tra gli studiosi e le più recenti, indulgenti esegesi dell'architettura del fascismo non sono state in grado di confutarne la solidità. C'è invece una nuova, più ampia e corale "costruzione" del primo Novecento dentro la quale l'architettura partecipa d'una più generale "civiltà" novecentesca insieme alle arti figurative, alla letteratura artistica e alle incursioni dei politici e dei filosofi nelle questioni d'arte e d'architettura. Così, Soffici, Carrà, De Chirico, Morandi e Sironi, Marinetti, Longhi e Venturi, Croce, Gobetti e Gramsci, i "pittori del Novecento" di Margherita Sarfatti, Ninfa Egeria di Mussolini, finiscono per avere, e giustamente, un ruolo di deuteragonisti rispetto agli architetti, con Piacentini saldamente alla testa dei monumentalisti e di contro la più sparuta ma agguerrita componente razionalista ispirata da Persico, Terragni e Pagano. Ma fu guerra guerreggiata tra i due schieramenti, perché tanti e ambigui furono gli intrecci tra i due gruppi. Essi si possono spiegare solo dentro un racconto che abbia una civiltà come sfondo e non un semplice orizzonte storico.

 

Giancarlo Consonni

L’architettura e le arti visive sono grandi passioni dell’autore: due campi di interesse coltivati in parallelo, non senza intrecci fecondi che si estendono alla città e al paesaggio. La pittura, in particolare, è una miniera a cui Cesare De Seta ha attinto per indagare sui caratteri della città italiana ed europea. Ne sono scaturiti libri preziosi – Napoli. Dalle origini all’Ottocento (Arte’m 20164), Ritratti di città. Dal Rinascimento al secolo XVIII (Einaudi 2011), L’Italia nello specchio del Grand Tour (Rizzoli 2014) – ed anche un’opera assidua di orientamento e concertazione di uno straordinario lavoro collettivo: dalla collana “Le città nella storia d'Italia” da lui diretta presso Laterza e arrivata a 37 titoli, alle ricerche intraprese dal Centro Studi sull’iconografia della città europea da lui fondato nel 1998 presso l’università Federico II di Napoli, alla cura, per la “Storia d’Italia” Einaudi, degli Annali 5 (1982) e 8 (1985) dedicati rispettivamente a Il Paesaggio e a Insediamenti e territorio. Ma qui quell’Arte e architettura con cui l’autore ha sentito la necessità di integrare il titolo segnala una novità nella lunga serie dei suoi libri di storia dell’architettura e persino rispetto a La civiltà architettonica in Italia dal 1945 a oggi, l’ideale secondo volume (anche se uscito prima, nel 2017, per i tipi di Longanesi) che, con questa ponderosa pubblicazione della Clean, completa l’impegnativa sintesi di De Seta sul XX secolo. Oltre al consueto interesse per i rapporti fra le arti e l’architettura (presente nell’intero libro, con una focalizzazione nel cap. III), in questo nuovo volume c’è anche una più ampia e specifica attenzione alla pittura in sé (che tocca il culmine nel cap. IV dedicato ai pittori del Novecento). Ne sono scaturite pagine che, nell’economia del libro sembrano rispondere a un duplice intento: avvicinare le più significative (e anche molto diverse) interpretazioni dello spirito del tempo offerte dalla pittura; porsi all’ascolto dello scavo sull’humana conditio condotto dai maggiori artisti (Giorgio Morandi e Mario Sironi in primis). In tal modo la pittura, per un verso, diviene un tramite che dà spessore alla contestualizzazione - nel senso che aiuta a comprendere il mondo in cui le opere architettoniche hanno preso corpo - e, per altro verso, fa da duca allo stesso autore, che ne trae la sfida a indagare più a fondo, rispetto a quanto da lui stesso fatto in precedenza, su significato e senso delle opere di architettura.

Ciascuna arte - e così l’architettura - ha modi propri di misurarsi con lo spirito del tempo e con la condizione umana. Quantunque nel XX si ripresenti irruentemente l’aspirazione all’unità delle arti maturata nel Romanticismo, questo obiettivo in ambito architettonico rimane, per un verso, un miraggio avvolto nell’ambiguità e, per altro verso, laddove è in qualche modo conseguito, si presenta come un sistema chiuso scarsamente suscettibile di evoluzione. Tra gli stili architettonici in cui diverse espressioni artistiche si fondono in unità spiccano il Liberty e il Neoplasticismo di De Stijl (Mondrian, Van Doesburg, Van Eesteren, Rietvelt ecc). Tra la fine dell’Ottocento e i primi due decenni del Novecento, il Liberty, come nota De Seta nel primo capitolo del libro, pur non arrivando in Italia ai livelli raggiunti da Victor Horta e Henri van de Velde, è riuscito in alcune città (Napoli e soprattutto Milano) a connotare parti del corpo urbano. Ma, salvo rare eccezioni, in queste realizzazioni il Liberty si apparenta a un fenomeno come la moda, dal momento che lo stile architettonico, nella gran parte dei casi, si riduce al rivestimento degli edifici, non discostandosi dal modus operandi dell’eclettismo storicista ottocentesco.

Non meno indicativa è la traiettoria di De Stijl (la cui influenza in Italia, com’è noto, è assai debole). Se gli architetti che vi fanno parte si misurano anche sul fronte di nuove concezioni spaziali (compresi i rapporti fra esterno e interno), non vanno però oltre la realizzazione di singole opere esemplari: non si attua quella rivoluzione nella sintassi urbana auspicata da Mondrian quando pensava che fosse a portata di mano la ridefinizione dell’architettura della strada urbana secondo i principi neoplastici (Piet Mondrian, Le Home - La Rue - La Cité, in «Vouloir», a. IV, n. 25, gennaio 1927, pp. 276-281). Il bilancio di queste e altre esperienze della prima metà del Novecento mette in luce che la questione della sintesi delle arti, oltre che essere un nodo di grande complessità (rispetto a cui le formule appaiono in genere riduttive), vede l’architettura, molto più delle arti visive, obbligata a fare i conti con il contesto, sia esso un paesaggio a forte componente naturale o un ambiente decisamente artificiale come il corpo di una città. Viene così in evidenza un punto cruciale con cui nel Novecento i movimenti sedicenti rivoluzionari (Futurismo, Suprematismo, Neoplasticismo, Razionalismo ecc.), ma anche i movimenti ‘conservatori’, non hanno saputo fare i conti: l’essere la città un contesto plurilinguistico e polisemico per eccellenza. Una caratteristica, questa, che vede la qualità architettonica della città nel suo insieme innalzarsi tanto più quanto più vario e complesso è il comporsi delle diversità in armonia. Sicché l’inseguimento dell’egemonia in campo architettonico-urbanistico - ovvero l’aspirazione di uno stile a prevalere sugli altri -, oltre a essere un intento nefasto che in taluni programmi si è spinto fino alla pretesa di cancellare il passato, è un controsenso e non poteva che portare al fallimento (quell’inseguimento, detto tra parentesi, ha visto più d’una utopia urbanistica del Novecento prefigurare pericolosamente quanto si è poi tragicamente verificato nei regimi totalitari, per non dire dei supini allineamenti dopo il loro instaurarsi).

Dalla sintesi di Cesare de Seta escono non poche conferme al riguardo. Casa Malaparte (opera a più mani, ma con forte impronta dello stesso committente) e la Casa del fascio di Como, o la Stazione di Firenze, sono capolavori che contengono una lezione implicita: l’architettura moderna di matrice razionalista dà il meglio di sé nel contrappunto con il paesaggio naturale (l’opera caprese) o con la complessità della città storica (l’opera comasca e quella fiorentina). Quando invece dal singolo edificio passa a forme di intervento più estese che comportano una composizione d’assieme, l’architettura moderna finisce per infilarsi in uno di questi tre vicoli ciechi:

  • fa piazza pulita della città storica (Gian Luigi Banfi, Enrico Peressutti ed Ernesto N. Rogers nel Piano regolatore di Aosta del 1936; Giuseppe Terragni nel Progetto di ricostruzione del quartiere Cortesella del 1937; Giuseppe Pagano, Irenio Diotallevi e Franco Marescotti nel Progetto di città orizzontale applicato al caso pratico di Milano tra via Brera e via Legnano del 1938-40; per fare alcuni esempi per fortuna rimasti sulla carta);
  • scade nell’uniformità di un ritmo senza musica (limite di molte proposte di nuove addizioni ispirate al lottizzamento razionale a cui non si sottrae il Progetto "Milano verde" per la sistemazione urbanistica della zona Sempione-Fiera di Franco Albini, Ignazio Gardella, Giulio Minoletti, Giancarlo Palanti, Giuseppe Pagano, Giangiacomo Predaval e Giovanni Romano del 1938);
  • mostra un’incapacità a rinnovare la narrazione dialogica della città ereditata dalla storia, come accade in modo emblematico allo stesso Giuseppe Terragni quando, nel Progetto di piazza dell’Impero a Como del 1935, vuole riordinare il contesto in cui era collocata la Casa del fascio.

Confermano la regola alcune eccezioni: la città nuova di Sabaudia, costruita nel 1932-34 su progetto di Gino Cancellotti, Eugenio Montuori, Luigi Piccinato e Alfredo Scalpelli e pochi progetti non realizzati, come il Piano per la Conca del Breuil di Lodovico Belgiojoso e Piero Bottoni del 1936 e il Progetto della sistemazione di via Roma a Bologna di Nino Bertocchi, Piero Bottoni, Gian Luigi Giordani, Alberto Legnani, Mario Pucci e Giorgio Ramponi del 1936-37.

Più di uno dei progetti di disegno urbano sopra richiamati non entrano nella trattazione di De Seta, ma non è questo il punto. Una delle tesi di fondo del libro è l’inferiorità dell’architettura moderna italiana rispetto a quella europea; un divario che, secondo l’autore, avrebbe origine nelle ambiguità, nelle contraddizioni e, persino, nell’opportunismo riscontrabili nelle dichiarazioni programmatiche degli architetti (in particolare in quelle del Gruppo 7, di cui vengono passati al setaccio gli scritti). In tutta evidenza, qui Cesare De Seta fa sua l’interpretazione di Edoardo Persico. Ma un conto sono le sacrosante denunce avanzate da Giuseppe Pagano verso lo scadimento nel «seicentismo del funzionale» di più di un architetto che, partito da orientamenti modernisti, era finito a vivacchiare di compromessi con la retorica di regime e un conto è far discendere una presunta debolezza dell’architettura moderna italiana dall’incapacità di affrontare le questioni, a cominciare dalla casa popolare, nei loro «rapporti con ideologie precise» (così Persico quando, nel 1933, parlando degli Elementi di case popolari di Griffini e Bottoni alla V Triennale di Milano, prendeva un colossale abbaglio). Di teorie (o ideologie) precise ne circolavano fin troppe e talora con «precise» sudditanze al regime. Come, sui nn. 13 e 16-17 di «Quadrante» del 1934, nei due scritti di Gian Luigi Banfi e Ludovico B. di Belgioioso inneggianti all’urbanistica e alla città corporativa; tesi ribadite l’anno dopo dai Bbpr al completo sul numero 29 della stessa rivista: prese di posizione incapaci di capire quanto stava succedendo in particolare a Milano dove il piano di Cesare Albertini, per esplicito vanto, metteva a «ferro e fuoco» la città.

In altri termini, la questione è mal posta: a parlare non possono che essere le opere. La tesi del divario sentenziosamente ribadita da Persico non regge: tra le due guerre l’architettura moderna italiana può vantare decine di edifici che non sfigurano in un ideale catalogo della migliore architettura europea di quegli anni. È lo stesso esame puntuale compiuto da De Seta opera per opera a smentire questa tesi. Ma c’è dell'altro: quello che manca in Persico è la messa in evidenza della inadeguatezza dell’architettura moderna sul terreno del progetto e del disegno urbano, tanto più quando metteva mano alla città costruita. Il condirettore di Casabella ignora del tutto la questione.

L’inadeguatezza della «civiltà architettonica» italiana sul terreno del fare città risale a prima del Razionalismo (né si può assegnare al Futurismo alcun credito su questo terreno). Da quelle carenze teoriche e pratiche la cultura architettonica italiana non si è mai del tutto emancipata (basti pensare, per un verso, alla difficoltà che, nelle Facoltà di Architettura italiane, incontrano gli insegnamenti dedicati al disegno urbano e, per altro verso, allo spazio enorme lasciato all’iniziativa privata e alle archistar nella definizione delle trasformazioni insediative). Ma, se si escludono poche esperienze (la nuova Francoforte e il piano di Amsterdam), si fa fatica a trovare, nell’Europa tra le due guerre, esperienze di rilancio della cultura della città all’altezza della grande tradizione del continente. Per tacere della nefasta influenza delle visioni urbanistiche lecorbuseriane.

Nell’insieme la carenza in fatto di progetto urbano che, tra le due guerre, si registra sul terreno dell’architettura e dell’urbanistica ha una portata più generale: è un segno della crisi di valori in cui affondano le radici la tragedia europea dei totalitarismi e della guerra.

Ma la ricostruzione sarebbe parziale se non si cogliesse l’emancipazione da tutto questo delle figure maggiori del razionalismo italiano attraverso un apprendimento autodidattico in un corpo a corpo con l’architettura e la città storica che darà i suoi frutti nel dopoguerra. Emblematica, tra queste, la traiettoria di Piero Bottoni, che ha il suo punto di ricominciamento nell’intervento di Villa Muggia a Imola (1936-38, con Mario Pucci) – un capolavoro che le storie dell’architettura non possono ignorare – e che si esplicherà pienamente nelle opere ferraresi degli anni ’50 e ’60.

A Cesare De Seta va riconosciuto il merito di offrire un panorama a tutto campo di ciò che dal variegato mondo dell’architettura è venuto alla trasformazione delle città italiane. Un quadro che sa guardare all’apporto dei singoli come a quello dei gruppi e che, per i contesti in cui l’architettura è stata più incisiva – Torino, Milano, Roma e Napoli –, arriva a delineare dei ritratti di città, facendo parlare l’architettura che, maschere o non maschera, non mente mai. Così questi ritratti restituiscono degli spaccati della società italiana, comprese le forze vive che comunque si muovevano sotto la pesante coltre della retorica di regime e che, nel dopoguerra, sapranno essere all’altezza della rinascita.

 

Roberto Gamba

Avanguardie novecentiste di arte e architettura L’autore, emerito docente dell’Università di Napoli, aveva già affrontato le argomentazioni di questo libro nel suo “La cultura architettonica in Italia tra le due guerre”, edito da Laterza nel 1972. Ribadisce che non è sua intenzione riabilitare o addirittura avvalorare un particolare ruolo culturale a espressioni artistiche maturate durante il regime fascista; ma sottolineare che, a differenza di quanto permise il nazismo, in Italia si instaurò con le avanguardie di quell’epoca un rapporto certo ambiguo e compromissorio, che permise comunque il loro manifestarsi con significativi risultati. Il volume, con un ricco corredo di immagini in bianco e nero, non si limita a una descrizione dei movimenti d’arte e architettura del primo novecento, ma ne analizza le influenze provocate nella politica, nella cultura in generale, nelle personalità dell’epoca. In sette capitoli, affronta vari aspetti dell’Arte Nova e del Liberty; del Futurismo; le influenze in Italia del Neoplasticismo, di De Stijl; presenta i pittori e il gruppo di Novecento; la Scuola romana; le espressioni dell’architettura razionalista, il Gruppo 7, la committenza industriale; gli architetti milanesi. Negli “apparati”, c’è una ricca bibliografia e indici dei nomi e dei progetti citati.

 

Luigi Prestinenza Puglisi

Gli esordi nella modernità sono segnati dall’inizio del secolo con la presenza significativa del Liberty in tutta l’Italia. Il Futurismo, che s’intreccia con questo vasto fenomeno di gusto, fu l’atto di rottura che portò il paese a dialogare con le avanguardie storiche. Con la fine della prima guerra mondiale e l’avvento del fascismo compare sulla scena il movimento di Novecento con personalità di rilievo e contestualmente la comparsa dei giovani razionalisti del Gruppo 7. Figure di spicco come Terragni, Figini e Pollini, i BBPR, Libera e altri convissero con il fascismo, ma dopo la Stazione di Firenze e la città di Sabaudia il regime scelse senza esitazioni una linea regressiva e monumentalista che si chiude con l’E42. L’autore segue le vicende storiche di questi anni non trascurando i rapporti con le arti figurative e la presenza significativa della critica architettonica: con “Quadrante”, “Casabella” sul fronte modernista, e le riviste gestite da Piacenti su quello dell’arte di Stato. Una vicenda ricca e complessa, con molte contraddizioni, ma che sono parte essenziale della civiltà architettonica del nostro Paese.


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